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SAN BENEDETTO DEL TRONTO - Di seguito una lettera della Caritas di San Benedetto dopo le proteste dei residenti del quartiere Ponterotto degli ultimi giorni.


In questi giorni, alla luce di alcuni fatti di cronaca successi nella sede della Caritas di Ponterotto, si sono levate voci che accusano la Caritas di accogliere e di favorire l’afflusso nel quartiere di soggetti pericolosi e di alimentare il degrado. Da parte nostra, di fronte alle lamentele degli abitanti del quartiere, non abbiamo avuto difficoltà a distinguere tra chi manifesta legittimamente un disagio e chi specula politicamente esaltando quel disagio dirigendolo strumentalmente. Tuttavia, queste accuse rivolte a Caritas colpiscono non solo chi opera quotidianamente nelle nostre realtà, ma vorrebbero mettere in discussione il senso profondo del nostro impegno.

La Caritas è la comunità cristiana che si interroga davanti ad un’urgenza: la presenza concreta, spesso drammatica, di persone in difficoltà. Non si limita a offrire un letto o un pasto, ma costruisce relazioni di aiuto, accompagna storie, sostiene percorsi di reinserimento. Non si tratta di accogliere a occhi chiusi, ma di rispondere a un vuoto sociale che spesso viene ignorato da chi dovrebbe invece farsene carico.

Chi parla di “soggetti pericolosi” usa un’etichetta facile, che semplifica ciò che è complesso. Sì, ci sono persone con fragilità, con alle spalle vissuti duri e pieni di cadute. Ma accogliere non significa giustificare il male, significa non arrendersi alla sua logica. La Caritas non ha mai confuso il bene con il male. Al contrario, lavora perché ci sia un una possibilità di cambiamento anche per chi ha sbagliato.

La Caritas garantisce per tutte le persone che accoglie: sono accompagnate, c’è un progetto su ciascuna di loro. Ovviamente non può garantire per chi non ha preso in carico e non conosce, o viene all’improvviso, di notte, dopo aver bevuto e dorme nei giardini o in piazza. Alcuni sollevano la questione dei container che ospitano 11 persone senza dimora, che altrimenti sarebbero in giro per la città. Eccetto due, tutti gli altri stanno lavorando o all’orto sociale o nella ristorazione. I soggetti dei casi di violenza non erano ospiti della Caritas ma gente che, nottetempo, si sono introdotte nella struttura.

Per questo motivo, con un dispendio economico non indifferente, è stata organizzata la presenza di un vigilante durante le notti per impedire che qualcuno, non autorizzato, possa scavalcare il recinto. Ci sono diverse situazioni personali, alcune molto difficili, e tutte ci interpellano. Nello stesso tempo sappiamo che è necessario dare risposte differenziate: non si possono mettere nello stesso dormitorio persone con esigenze diverse, per non creare situazioni esplosive. Ma siamo anche testimoni che ci sono tante vite riemerse, persone che hanno trovato casa, lavoro, relazioni. Esistenze ricucite, spesso in silenzio. Ma oggi sembra che il bene non interessi: fa più rumore una situazione di disagio di mille gesti quotidiani che cambiano la vita.

L’accoglienza non può mai essere una scelta autonoma o ideologica: è la risposta di tutta una comunità a bisogni concreti, a volte affrontati persino aprendo le porte della propria casa, come farà il nostro vescovo Gianpiero che ospiterà in episcopio alcuni che non hanno casa. Segno di una Chiesa che non delega, ma si espone, non per calcolo, ma per fedeltà al Vangelo e all’umanità.
Ciò che chiediamo è semplice: collaboriamo insieme. Alle istituzioni pubbliche, che già portano avanti alcuni impegni, chiediamo ancora di più; alle forze dell’ordine chiediamo la loro parte. La Caritas non può essere trasformata nel capro espiatorio di paure collettive.
Se si chiudesse la Caritas di San Benedetto ogni anno nella nostra Diocesi 29.897 pasti non sarebbero serviti, 4.302 pacchi viveri non sarebbero distribuiti, non sarebbero offerte 758 docce, non verrebbero erogate 1.469 prestazioni sanitarie, ma anche altre 44 persone vivrebbero per strada. Tutto questo si fa con i volontari e con i soldi della Chiesa.

Forse bisognerebbe cominciare a pensare che Caritas non è il problema ma un anello della catena che permette la soluzione del problema. E’ necessario che tutti mettano gli altri anelli per fare la loro parte. Costruire relazioni, educare alla libertà e alla responsabilità, è il primo passo per rendere la nostra società più giusta e più umana. Nessuno deve aver paura del bene, piuttosto guardiamolo da vicino. E, se possiamo, partecipiamo. 

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